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il giornalino [2005]

“Non chiedere la strada a chi già la conosce, ma chi a come te la cerca”

(E. Jabès, Il libro dell’ospitalità)

Un ringraziamento a coloro che hanno reso possibile questa esperienza, accettando di condividere con noi la loro storia.

Un pensiero per chi leggerà quanto scritto, nella speranza che queste parole siano di conforto e di stimolo…

Chiara, Silvia, Valentina


SOGNI

Non rinunciare mai ai tuoi sogni.

Non buttarli mai via

Anche quando la strada da percorrere è buia

E la luce sembra non esserci più.

Ma è in fondo alla galleria, lontana ma c’è!

Ed è rinchiusa nei tuoi sogni

La chiave per raggiungerla.

Quando tutto sembra perduto, sono loro a tenerci in piedi.

Non abbandonarli mai perché loro sono

L’antidoto ad ogni veleno,

La guarigione alla più mortale delle malattie

Quella che colpisce l’anima e la ferisce, fino ad annientarla.

Ma finchè i tuoi sogni saranno con te,

Tu sarai vivo con loro,

E niente potrà mai fermarti

Perché loro vivono con te!

Katia


MALATTIA

È come una tempesta, un dolore feroce.

Ti giri e lei e lì, ti circonda con la sua presenza, ti opprime, ti soffoca ed una rabbia cieca si impossessa di te.

Allora prendi quello che ti capita a tiro e lo distruggi in preda ad una ira feroce; imprechi, tiri pugni fino a che ti ritrovi in ginocchio spossata ed inizia il pianto liberatorio.

Le lacrime ti rigano il viso e tu non le asciughi.

Ti fai invadere dal torrente delle tue emozioni, rompi i ponti ed un dolore profondo ti invade ed esce dai tuoi occhi, dai pori della tua pelle, ti lacera le tempie, esce dalla bocca con un mugolio continuo fino a quando, sfinita, fissi un punto oltre te ed oltre lei; una calma fredda ti penetra addosso, riprendi il controllo del respiro, ti asciughi le lacrime, il silenzio ti avvolge freddo e determinato, i tuoi occhi si fermano e trovi il modo di andare avanti, di rialzarti… fino alla prossima disperata volta.

Cri


C’ERA UNA VOLTA

C’era una volta una piccola principessa, che un giorno incontrò il suo lupo; dalla paura che prese perse i capelli più e più volte. Furono chiamati i più bravi dottori di corte che nulla trovarono di malattia e neppure credevano alla sua storia. Negli anni la fanciulla ebbe alcuni disturbi di vario genere ma gli illustri dottori dettero sempre colpa al carattere della giovane, al suo temperamento nervoso e la curarono con le più assurde pozioni senza alcun risultato.

La principessa comunque crebbe felice, incontrò un bellissimo principe, si sposarono e vissero felici fino a che non venne annunciato l’arrivo di un bambino; ma ecco che il lupo che era rimasto fino ad allora venne a prenderlo lasciando i due sposi nella tristezza. Poco dopo la principessa fu nuovamente incinta e questa volta difese il suo piccino con le unghie e con i denti fino alla nascita; non furono mesi facili, il lupo era sempre presente a minacciare la vita e la salute di entrambi, ma riuscirono a farcela: solo la principessa dovette lasciare la tiroide al lupo come tributo, vivendo da allora con molti problemi in più rispetto a prima, ma nonostante ciò i medici di corte ancora non le credevano.

Un giorno il lupo si ripresentò più feroce di prima rinnovando i problemi della giovane e da allora qualcuno osò pensare che esistesse veramente.

Da allora la principessa vive con il suo lupo vicino. Il suo desiderio è quello di riuscire ad addomesticarlo, ma lui è uno spirito libero, incostante: un momento è quieto, quasi addormentato, per svegliarsi ad un tratto mettendo in mostra tutta la sua forza ferina. Non è una facile convivenza, ma la principessa ha imparato ad accettarlo e a far tesoro della sua forza che lui le trasmette, ha imparato ad avere consapevolezza di sé, a conoscersi meglio, ad avere stima di se stessa, ad aprire quei cassetti da sempre chiusi, tirarvi fuori i sogni e realizzarli, anche per dare un esempio a suo figlio, il quale a sua volta ha incontrato il proprio lupo.

Questa storia non ha un epilogo: la principessa è ancora seduta sul suo scranno, con il lupo accovacciato ai suoi piedi.

Ogni tanto si guardano con sfida ma insieme… aspettano.

C.M.


SOLO SETTE GIORNI

È appena trascorsa la settimana dedicata alle malattie del sangue (linfomi, mielomi e leucemie). In questi sette giorni è stato detto e fatto tanto, si sono raccontate diverse esperienze, sia di medici che di chi ce l'ha fatta, e la macchina della solidarietà si è messa in moto, raccogliendo fondi utili per la ricerca.

Ma da oggi si sono spenti i riflettori.

I programmi di salute si sono rimessi a parare di diete e palestre, e tutte quelle persone che fino a ieri erano pronte a credere nella ricerca, sono tornate a chiudersi di nuovo nel loro muro di dubbi e pregiudizi.

Si tornerà su questo argomento, solo per mostrare alle telecamere un povero bimbo calvo, o una persona magra e sofferente, senza quasi mai dire che anche quel bimbo può diventare un uomo, e che anche quella persona sofferente può guarire!

Chi scrive aveva solo tre giorni di vita per un linfoma, ma tutto questo accadeva due anni fa. Adesso sta bene, conduce una vita normale, e ieri ha coinvolto tutti i suoi amici e conoscenti a donare un euro per la ricerca. Certo sarà stato poco, ma c'è da dire che molti di noi sono disoccupati, e che comunque l'abbiamo fatto volentieri, anche perché speriamo che settimane così ce ne siano molte di più che una o due volte l'anno.

Perché sette giorni non bastano.

C'è ancora troppa gente in giro, che ancora pensa che parole come “tumore” o “chemioterapia” ,equivalgano alle parole “morte” e “fine”.

Sono troppi gli ignoranti che ancora si voltano a guardare una ragazza calva, con occhi disgustosamente grondanti di pietà; o a commentare dietro: “Poveretto!” a chi ha avuto tale esperienza, anche a distanza di tempo, perché lo considerano solo un vuoto a perdere. Senza contare quelli che ti considerano un condannato perché sono convinti che un linfoma si possa solo fermare e non guarire!

Sette giorni sono troppo pochi per spiegare alle persone cosa sono queste malattie, in cosa consiste la cura, e soprattutto i progressi che ha fatto la medicina in questo campo!

Anche televisione e giornali che tutti guardiamo e leggiamo dovrebbero dare più spazio all'argomento, in modo da divulgare un sapere diverso in proposito.

So che la mia voce rimarrà solo una goccia nel mare, ma dopo aver vissuto in prima persona questa drammatica esperienza, sentivo il bisogno di dire ancora qualcosa.

Mi piacerebbe che venisse diffusa una cultura diversa, del coraggio e della speranza, anche per dare una marcia in più a chi si trova adesso a fare i conti con questo male, e per i loro familiari. Perché solo in questo modo il maledetto muro di pregiudizi e pessimismo potrà finalmente essere abbattuto.

Nel mio piccolo spero di aver dato un contributo anche io, affinché i riflettori su queste giornate non vengano mai spenti.

Katia Grilli, 16/05/2005


LA MIA AVVENTURA

La mia “avventura” è iniziata un anno fa.

Sembrava colite quel dolore al basso addome che mi martellava già da molti giorni, ma si è rivelata in realtà una ciste ovarica impazzita che di lì a poche ore avrebbe potuto creare conseguenze drammatiche.

Per fortuna l’intervento chirurgico tempestivo le ha evitate.

Tutto riaffiora nella mia memoria: l’operazione, la pleurite post-operatoria, molti giorni trascorsi in ospedale… poi quando le cose sembravano tendere al meglio e tutto si riavviava alla normalità ecco arrivare la risposta agghiacciante dell’esame istologico: endocarcinoma maligno.

Si ricomincia tutto daccapo: di nuovo il ricovero, la decisione dei medici di asportare l’utero e la consapevolezza per me di non poter avere più figli (nonostante che i miei 37 anni ancora me lo consentivano) e le infinite paure riguardo all’immediato futuro.

Poi, grazie al Cielo, il tumore era circoscritto, anche se era necessario fare la chemioterapia.

Affrontare la chemioterapia non è stata una cosa semplice; anche lì ci sono state varie complicazioni: la mia reazione allergica ad un farmaco con quindi un nuovo ricovero in oncologia.

La perdita immediata dei capelli, che anche se può sembrare strano è stata per me un grosso dramma.

Non da meno la sofferenza che la chemioterapia mi procurava nei giorni immediatamente successivi all’assunzione dei farmaci.

Un incubo durato 6 mesi, che ha lasciato segni molto profondi dentro di me.

Adesso sono passati 6 mesi dalla fine della chemioterapia ed io sto rifiorendo in tutti i sensi.

In questo difficile periodo mi ha dato tanta forza il fatto che io non dovevo mollare per mio figlio principalmente.

Sono giunta al termine del mio racconto; vi confesso però che non è stato semplice ripercorrere nella mente un periodo tanto difficile della mia vita e il desiderio di piangere mi sta assalendo… ma voglio comunque concludere cercando di vincere me stessa così come ho fatto in questo anno travagliato.

Marina

 


LA MIA STORIA

Alle psicologhe con affetto

Grazie di cuore per il vostro lavoro, impegno profuso e affetto, a nome mio e di tutti quelle persone che ne hanno beneficiato.

Non mi sento portata a scrivere, questo è ciò che è uscito dalle mie riflessioni, spero che possa aiutare qualcuno.

Quando sono cominciati i primi sintomi avevo 39 anni e al momento in cui scrivo manca poco più di un mese al mio 41° compleanno.

La mia situazione è un po’ particolare, ma spero che chi leggerà potrà trovare aiuto o conforto nel sapere che qualcun altro ha vissuto difficoltà simili alle sue, perché non si scoraggi troppo nei momenti più duri e ricordi sempre che la malattia non può essere qualcosa che è superiore a noi.

Il primo segnale, che più tardi si sarebbe dimostrato essere collegato alla malattia, è stato la tosse, cominciata nel mese di novembre 2003 e che a distanza di due mesi non se n’era andata. Il mio medico di famiglia mi diceva che non era niente di preoccupante, comunque non mi sentivo tranquilla, avrei voluto esserlo, ma avevo la sensazione di qualcosa di più grave, anche se non pensavo a nulla di ciò che mi sarebbe stato diagnosticato di lì a qualche mese, nel marzo 2004. Nella primavera del 2003 avevo accusato vari disturbi che sembravano riconducibili a problemi psicologici: senso di soffocamento, mancanza d’aria, angoscia, pensieri negativi riguardo a me stessa, mi sentivo senza via d’uscita. Allora ero già malata e non lo sapevo, il tumore si sviluppa prima che diventi visibile alle indagini radiologiche, per quanto mi riguarda sono convinta che il mio stato psicologico, di stress continuato per troppi anni, sia stato determinante nello sviluppo della malattia.

Senza che me ne accorgessi, giorno dopo giorno, stavo sempre peggio, finché appunto mi ammalai, come dire: adesso basta, così non si può più andare avanti; per qualche ragione non avevo saputo trovare una soluzione ai miei problemi e ad un certo punto il corpo si era ribellato.

Di fronte ad una situazione estrema devi pur reagire, da questo momento non si scherza più, se non trovi la forza sai come puoi finire. Non può essere altrimenti: dopo ciò che ho già passato nella mia famiglia – mi dico sempre – non è giusto che io debba perdere la vita senza averla nemmeno vissuta.

Nel febbraio 2004 stavo ormai talmente male da avere problemi nel portare a termine il lavoro, mangiavo da sola perché avevo grosse difficoltà, la tosse aumentava sotto sforzo e facevo fatica a parlare normalmente. Come ho già detto il mio medico attribuiva alcune manifestazioni all’ansia e la tosse ad una faringite. Poiché non ero comunque convinta, pensai di rivolgermi ad un omeopata, il quale, dopo una visita accurata, si accorse che nel mio polmone destro non entrava quasi più aria; mi prescrisse una radiografia urgente sospettando una pleurite. Ne avevo sentito parlare, ma non avevo le idee chiare, non sapevo per esempio che poteva essere la conseguenza di svariate malattie, tra cui il tumore; quello – mi dicevo – non poteva essere, non avevo mai fumato in vita mia.

Poi non ebbi il tempo di approfondire le ricerche perché mi ritrovai in breve all’ospedale e qui fui sottoposta ad una quantità di esami; mi fu prelevato il liquido dalla pleure, da dove non smetteva mai di uscire: litri e litri di liquido, come se il mio povero polmone si fosse trasformato in un serbatoio, mai avrei immaginato che un torace neanche tanto ampio come il mio potesse contenere tutta quell’acqua; la diagnosi fu: versamento pleurico massivo su tutto il polmone destro, che quindi era quasi completamente chiuso, l’aria lì non entrava quasi più. Man mano che venivano escluse le ipotesi meno serie, la mia angoscia aumentava; mi sembrava di capire dove tutti gli indizi confluivano; purtroppo, dopo tre settimane trascorse nel reparto di medicina generale, fui trasferita nel reparto di oncologia e lì ero sempre più vicina al momento in cui avrei conosciuto la verità ….. che non poteva essere, che mai avrei pensato: come potevo essermi ammalata di tumore?

Non potevo più scappare, qualcosa c’era; forse – mi dicevo- non era così grave, forse ce l’avrei potuta fare, come era possibile che io dovessi finire in quel modo? Messa di fronte all’evidenza cominciai però a calmarmi, finalmente si era scoperto cosa avevo, finalmente un punto fermo da cui partire al posto di incertezza e confusione. La malattia aveva un senso, era la fine di un processo in cui non c’era stato spazio per me, era una sfida che se avessi vinto, mi avrebbe ridato tutto e che se invece avessi perso, mi avrebbe fatto perdere me stessa; una cosa troppo seria per lasciarla andare, l’unica ragione veramente forte per la quale avrei potuto reagire ad una situazione di stallo che durava ormai da troppo tempo e dalla quale non riuscivo ad uscire.

Da questo momento sono cominciate le mie peripezie, alti e bassi che devo affrontare continuamente perché non posso abbandonare la mia vita: è troppo presto; a volte sono molto stanca, la mia situazione familiare non mi è di aiuto, ma di ostacolo; la lotta è ancora più dura, mi chiedo perché tutto questo sia capitato a me; non ho avuto un’esistenza serena e non credo di meritarmi tutta questa sofferenza, volevo solo un po’ di libertà; a volte mi sembra di vivere in un brutto sogno, mi dico che in realtà non ho nulla, che si sono sbagliati. E’ invece davvero giunto il momento di passare all’azione per troppo tempo rimandata, questa volta non si può scegliere, non si può esitare. Me lo ripeto perché non ne sono sempre convinta, devo ricordarmi che questa mia malattia è l’ultimo campanello d’allarme, di avvertimento affinché ci sia una svolta nella mia vita, a qualsiasi costo, anche se avrò paura, se farò fatica; pure se parto molto stanca e provata e mi sembra persino un’ingiustizia, sarà sempre meno duro di quello che ho dovuto affrontare fino a questo momento, ciò mi darà la forza.

Dal febbraio 2004 sono stata ricoverata in ospedale cinque volte e vi ho trascorso quattro mesi. Dopo il primo ricovero di un mese, al fine del quale ho avuto la diagnosi di tumore al polmone (non a piccole cellule, cioè un tipo meno aggressivo), che risale a marzo dello stesso anno, ho cominciato la chemioterapia con cisplatino e vinorelbina. Ma il liquido presente nella pleure era ancora troppo e quindi sono stata sottoposta in giugno ad un piccolo intervento in anestesia locale per drenare il liquido e l’aria che nel frattempo si era formata (pneumotorace); tenere i cateteri è stato molto doloroso, anche per via dell’effettuazione del talcaggio (che consiste nel far saldare chimicamente e in modo definitivo le pareti della pleure per impedire il formarsi di altro liquido), operazione che mi ha indotto la febbre per più di una settimana intossicandomi il fegato. Una volta ripresa però, mi sentivo finalmente rinata e sono partita con un secondo ciclo di terapia con taxotere, che in confronto alla precedente non mi dava praticamente disturbi. Il tumore naturalmente c’era ancora, ma essermi liberata di tutto quel liquido mi faceva comunque respirare meglio e sentire più leggera. Il momento di gloria purtroppo è durato poco, a settembre infatti ho preso un’infezione batterica con febbre e grande disagio fisico per cui mi sono ritrovata di nuovo in ospedale. Ristabilitami dopo questo incidente di percorso, mi si è prospettata una nuova cura sperimentale con un farmaco non chemioterapico, che aveva dato buoni risultati nelle donne non fumatrici affette dal mio stesso tipo di tumore. Sono stata subito entusiasta e ho iniziato la cura in novembre, ma sfortunatamente nel mio caso non si è rivelata utile, anzi gradualmente mi ha procurato un’intossicazione e deperimento fisico, tanto che tra febbraio e marzo di quest’anno sono stata ricoverata per due volte in ospedale. Com’è noto le cure funzionano in modo molto soggettivo e ciò non è spesso prevedibile in anticipo, almeno con gli strumenti disponibili oggi e quindi si procede a tentativi, seguendo un protocollo stabilito a seconda del tipo di tumore. Naturalmente questo non toglie che il paziente possa soffrire per una cura sbagliata, come per esempio è accaduto a me. Dalla TAC risultava un’estensione della malattia al polmone sinistro ed inoltre sono stata costretta ad adoperare l’ossigeno perché facevo abbastanza fatica a respirare, oltre al fatto che ero fisicamente molto provata: per me quello è stato il periodo più triste. Mai avrei creduto di potermi ridurre in quello stato, dovevo assolutamente riprendermi, anche se i momenti di sconforto non mi aiutavano. Non appena mi sono un poco ristabilita, ho cominciato nuovamente la chemioterapia con un altro farmaco, gemcitabina; nonostante la fatica sono ripartita con nuove speranze, dicendomi: prima o poi ci sarà pure la cura giusta per me. Non è facile ogni volta ricominciare, ma ho forse altra scelta se non andare avanti? Attualmente sto proseguendo questa cura, che mi è stata per un periodo sospesa, in quanto il mio organismo sta risentendo degli effetti collaterali della terapia.

Nonostante i momenti di disperazione, un’energia che va oltre la mia stessa comprensione mi spinge ad andare avanti: non posso arrendermi a qualcosa che non è superiore a me.

Anche se non lo sappiamo, guarire è nelle nostre possibilità, dipende dalla nostra volontà.

Volgendo lo sguardo fuori, verso il mondo circostante, verso coloro che ci danno affetto, troveremo l’aiuto necessario a riaccendere quella forza che è già presente dentro di noi.

Cristina C., 9 giugno 2005


IL GIORNO CHE HO TOCCATO IL FONDO

Siamo angeli con un’ala soltanto,

E possiamo volare

Solo tenendoci abbracciati…

Era una mattinata come tante, una normalissima mattinata di chemio.

Ma non per me.

Il CVC, ossia l’orrendo catetere venoso che avevo all’altezza dell’arteria femorale, si era intasato, e fino a quel momento i disperati tentativi degli infermieri per farlo ripartire non erano valsi a nulla: lui aveva deciso di fare sciopero!

Di conseguenza, venni accompagnata nel reparto di angiologia (dove mi era stato messo) da un’infermiera che durante tutto il tragitto tentò con tutte le sue forze di placare le mie ire; infatti, se quel dannato tubicino non si fosse stappato, l’alternativa era quella – poco felice – di rimpiazzarmelo nel torace, vicino al collo. E questa era una cosa che non concepivo proprio!

A dire la verità, questo è un catetere che di norma andrebbe impiantato proprio nel torace, salvo casi eccezzionali (come il mio). Avevo troppi linfonodi da quelle parti, tanti che stavo rischiando quasi di morire soffocata, e avevo solo tre giorni di vita quando venni ricoverata. Quindi, decisero per la femorale, in modo da non andare ad intaccare altre cose. Nella sfortuna di essere in quella situazione, ritenni questa cosa quasi una fortuna: se proprio dovevo portare addosso un aggeggio simile, allora era meglio che fosse in un punto dove non lo avrebbe visto nessuno!

In seguito, poi, ero stata molto abile a nascondere il mio stato di salute agli occhi del mondo: una “furba” parrucca rasta ed un sapiente trucco mi avevano aiutato a camuffare calvizie e pallore dovuti alle cure. Ma se quel “coso”mi fosse stato messo lì, alla bella vista di tutti, le cose sarebbero cambiate per me, e di parecchio!

Ho sempre pensato che la compassione della gente fosse una cosa insopportabile da digerire, e purtroppo io vivo in un quartiere dove nessuno si è mai fatto gli affari propri. Basti pensare che qualcuno mi aveva già fatto il funerale da quando venni portata via con l’ambulanza! E da allora ho avuto i riflettori della pietà sempre puntati addosso: ero diventata il caso clinico del quartiere; la malatina, a cui per educazione bisogna sempre porre la solita, fastidiosa domandina: “Come stai?”.

Tutto questo è difficile da buttare giù, a soli 26 anni!

La mia rabbia, intanto, raggiunse le vette dell’Himalaia una volta che io e quell’infermiera varcammo la soglia del reparto: sapevo che l’angiologo che mi aveva operata non aspettava altro che di poter fare il cambio; me lo aveva già detto quando mi aveva vista 15 giorni prima, durante la mia “sessione” di chemio. Avevo protestato, fino quasi a trasformarmi in una vera e propria iena, nonostante le flebo attaccate. Ma lui non era disposto ad ascoltare il mio dissenso. Nessuno era disposto ad ascoltarlo veramente. Io non ero più “mia”, mi ero trasformata in un pezzo di ciccia malata nelle mani di altri; altri che decidevano per me quello che era più giusto fare, senza ascoltare mai veramente quello che pensavo, e né tantomeno quello che avrei dovuto subire in seguito alle loro decisioni.

“Del resto” – mi avevano detto – “la vita viene prima di tutto: cosa te ne frega se gli altri ti vedono il CVC? L’importante è che stai bene tu!”.

Già, la vita. Cos’era diventata la “mia”vita?

Chi ero io?

Certo sapevo quello che ero prima: una ragazza vitale e piena di sogni, a volte anche fin troppo.

Prima. Ma adesso?

La mia vita si era ridotta ad un andirivieni di tac, esami del sangue, chemio ed altri controlli vari. E non sapevo più chi ero io in realtà.

Intanto, l’infermiera entrò nella sala operatoria con la cartella clinica per annunciare il mio arrivo; già immaginavo il dottore fregarsi le mani e dire: “Eccoci, finalmente si opera!”.

Io ero rimasta da sola in quella sala d’aspetto praticamente deserta; avevo solo quei miei pensieri come unici compagni. Furono loro ad ordinare alle mie gambe di alzarsi e scappare da lì; dove non si sa, ma di certo il più lontano possibile!

Mi guidarono fino ad una stanza buia in fondo al corridoio; quello doveva essere una specie di ripostiglio. Al centro del muro, davanti a me, c’era un vecchio armadio scassato e praticamente inutile… Esattamente come ero diventata io!

Inutile, inservibile, “un rifiuto in gabbia” come mi definì un giorno qualcuno.

Mi rannichiai a terra con il desiderio di sparire e cominciai a piangere.

Piansi per la mia vita, che in quel momento sentivo andare in pezzi; piansi per quella che ero e che non sarei mai più stata… Perché anche se fossi guarita, il ricordo della malattia sarebbe sempre stato comunque con me, non mi avrebbe mai mollata… Che ne sarebbe stato,allora della mia esistenza?

Piansi per non so quanto tempo ancora, ma di certo finchè non rimase più una goccia di lacrima dentro ai miei occhi.

Infine, mi ritrovai come svuotata ad osservare una porta in fondo alla stanza, dalla quale filtrava luce. Notai che era una di quelle porte con il maniglione anti-panico, che sicuramente portava all’esterno. Istintivamente mi alzai e la oltrepassai, così, come se fosse stato un ennesimo comando.

E mi ritrovai davvero fuori.

L’aria era frizzante, anche se era giugno inoltrato, perché la sera avanti c’era stato un tremendo temporale, ma il tempo, comunque, già volgeva al bello.

Io mi trovavo su di un terrazzino e sotto di me degli operai erano intenti ad eseguire una riparazione alle mura dell’ospedale.

Guardai di sotto: non avevo idea a quale piano mi trovassi esattamente, però era una buona altezza. Se mi fossi lanciata non ci sarebbe stato scampo per me, malata com’ero.

Tutti i miei sogni erano stati distrutti; il mio corpo era stato violato in lungo ed in largo da quel maledetto linfoma, che alla fine si era portato via anche la mia gioventù: che alternative avevo?

Ricominciare? E come? Con la “spada di Damocle” dei controlli sempre puntata sulla testa?

Se poi mi avessero davvero messo quel catetere sul torace, a spenzolarmi tristemente dalle magliette… Sarei diventata un autentico fenomeno da baraccone: “Guarda quella,cos’ha? Cos’è quell’affare che le ciondola davanti?”.

Io che ho sempre avuto paura di andare dal medico, anche solo per un raffreddore; io che non ho mai sopportato mani sconosciute su di me; io che ho sempre temuto di venire manipolata, radiografata, auscultata…

Non era più vita la mia. Non sarei mai più tornata ad essere quella di un tempo. MAI!

Il mio motto era sempre stato: mi spezzo ma non mi piego, quindi, se avessi chiuso la partita in quel momento, la malattia non l’avrebbe avuta vinta su di me; e la mia anima sarebbe stata dinuovo libera: libera dalle paure, libera da un corpo che l’aveva tradita, piegandola a cose che non avrebbe mai accettato di subire. Libera da tutto.

Mi sentivo stanca di tutta quella storia, stanca di dover essere imbottita di medicinali strani e di dover guardare ogni giorno un mostro nello specchio invece della mia immagine. Volevo solo liberarmi da quell’incubo senza fine.

Meglio darci un taglio, finirla lì.

“Dai, su, coraggio… È solo un attimo e poi sarà tutto finito!” mi ripetevo.

Chi mi voleva bene mi avrebbe capita e non avrebbe pianto per me; in fondo quello sarebbe stato l’unico e l’ultimo gesto d’amore che facevo a me stessa!

Non sarei stata una gran perdita per il mondo, in vita mia non avevo mai fatto nulla di buono e a quel punto, l’unica cosa certa era che mi ero trasformata in un vero parassita per tutti.

Mi ero sporta, pregustando già l’ebrezza del vento sulla faccia; in fondo sarebbe stato un po’ come fare boogie jumping, solo che c’era una differenza…

Pregai solo che il vento non mi sfilasse via la parrucca, non avrei sopportato che altri vedessero la mia umiliante calvizie. Volevo essere ricordata come una bella ragazza, piena di vita e di sogni, e non come un mostro!

“Finalmente ti ho trovata… è un po’ che ti cerco! Vieni dentro che devo farti conoscere una persona.”

L’infermiera.

Mi aveva cercata per tutto quel tempo, forse intuendo qualcosa; stava già comimciando a disperarsi per quella mia prolungata assenza. In fondo io le ero stata affidata e se davvero avessi combinato qualcosa la colpa sarebbe ricaduta su di lei. La conosco: è una brava persona… E mi sarebbe dispiaciuto farle del Male, anche se involontariamente. Allora la seguii.

Ormai l’attimo era fuggito, se ne era andato. Il destino aveva altri programmi per me.

Ripercorremmo la stanza buia dell’armadio e notai che, seppur scassato, ancora serviva a qualcosa; infatti era lì che medici ed infermieri riponevano le loro divise dopo averle usate. E pensare che solo fino a poco prima mi ci ero paragonata, ritenendomi inutile come un vero rifiuto in gabbia: era forse un segno del destino?

Allora anche io potevo servire ancora a qualcosa!

Poi ritornammo di nuovo nella sala d’aspetto che non era più deserta: infatti, seduta in un angolo, c’era la persona che l’infermiera teneva tanto a presentarmi. Lui era un giovane uomo, che attendeva la propria moglie che proprio quel giorno era andata a togliere il CVC.

Mi spiegò che anche lei aveva avuto il mio stesso linfoma e che ce l’aveva fatta, era guarita!

“E’stata fortunata perché questa in fin dei conti è una forma di tumore curabile. Anche mia moglie a volte ha avuto paura di non farcela; se dovessi raccogliere tutte le lacrime che ha versato ci farei un mare! Pensa che quando le hanno detto che era guarita, quasi non ci voleva credere. Però è così! Ce l’ha fatta, ci è riuscita!”.

Eppure, tanto lui che sua moglie avevano affrontato non pochi problemi: erano venuti in questo ospedale da un’altra città, proprio per permettere a lei di essere curata al meglio. Avevano anche un bimbo piccolo, che è stata la vera forza di questa donna, che le ha permesso di uscire dal suo incubo.

Intanto, mentre mi parlava di quella storia, lui aveva una strana luce negli occhi,e la sua voce emanava una sicurezza ed una tranquillità che finì per trasmettere anche a me.

Sì, anche io come sua moglie potevo avere ancora una speranza; anzi, ero soprattutto io che dovevo darmela, dal momento che i medici me l’avevano già data.

Il “nostro”era un male curabile. Ero io che l’avevo reso incurabile con le mie sciocche manie suicide!

Compiendo quel gesto vigliacco, non avrei affatto compiuto un gesto d’amore per me stessa, bensì un vero e proprio crimine! Mi sarei negata ogni possibilità di ricomiciare e di dare una speranza a chi ci stava passando, oltre che un dolore a chi mi era vicino.

In fondo,se mi ero salvata una volta un motivo doveva pur esserci!

Il CVC poi è rimasto al suo posto, alla femorale, per tutti i 6 mesi della cura. E per tutto quel tempo, il ricordo della forza di volontà di quelle due persone mi ha sempre accompagnata.

Quel giorno avevo davvero toccato il fondo, ma una volta che lo si è raggiunto non si può che risalire.

Certo, è stato difficile… anche io ho pensato tante volte di non farcela, ma quelle parole, dette proprio quado avevo il bisogno di sentirmele dire, sono state il mio faro nel buio, la luce che mi ha permesso di non smarrire mai la strada per ritrovare me stessa.

Non li ho più rivisti da allora e penso che siano ritornati nella loro città. Comunque,a distanza di due anni, voglio ancora dire GRAZIE a queste due persone, che mi hanno permesso di continuare a vivere senza arrendermi, oggi, che quell’incubo è finito anche per me.

Mi capita spesso di ripensare a quanto stavo per commettere, e anche se le cose non sono state facili, sono contenta di non averlo fatto!

Perché per quanto possa essere faticoso ricostruire la propria vita da zero, vale la pena di provarci; solo la voglia di vivere è la vera rivincita sulla malattia.

Poiché penso che certi mali vengano anche per un ristagno di energie negative, che teniamo troppo a lungo nascoste dentro di noi, voltandomi indietro non voglio ripensare a quel periodo come ad una disgrazia della vita, ma bensì ad una sorta di lezione che dovevo imparare.

Ho voluto raccontare questa storia perché ritengo che fra tante di quelle che ho vissuto durante la cura, questa sia stata la più significativa. È stato da quel momento che ho dato un’importanza diversa alla malattia, cominciando piano, piano, la mia risalita.

Vorrei che altre persone che stanno vivendo quello che ho vissuto io ritrovassero il loro coraggio di tornare a galla tramite queste parole che sono state dette a me.

Lo so, questo è un abisso nero in cui a volte molti di noi sprofondano senza un motivo apparente.

Ma bisogna sempre guardare la luce sopra di noi, senza mai perderla di vista, perché lassù brillano tutti quelli che ce l’hanno fatta, e che aspettano solo di unirsi a noi.

Perché c’è sempre una speranza.

Katia


CARO DIARIO

12/01/2004

La mia lotta per ricominciare tutto da capo è appena iniziata e già mi sembra un’odissea.

Si dice “Anno nuovo, vita nuova”.

L’oroscopo mi dice che a primavera dovrei ricominciare a rinascere e che per ora non dovrei neanche pensarci a certe cose; così per non pensarci mi sono buttata sui saldi di stagione, mi sono rifatta il guardaroba e mi sono svuotata il portafogli… e questa è la sola novità… per ora.

Una cosa però l’ho capita: mi ci vorrà molto tempo per rimettere le cose a posto, e mai niente sarà come prima. Ogni cosa conquistata avrà un valore nuovo, più alto. Spesso ci si lamenta per i soldi spesi per una maglia, per un libro o per qualsiasi altra scemenza, ma se si pensasse che ci può capitare di rischiare la vita, per qualunque motivo, rimpiangeremmo di esserci lamentati o di esserci privati di qualcosa che poteva farci piacere!

Si vive una volta sola.

Quando venni ricoverata la prima volta, la notte, quando si poteva avere un momento di pace solo per noi, ripensavo a tutte le volte in cui mi ero lamentata di quando Andrea faceva tardi per venirmi a prendere. Lì, in quel momento e in quella situazione, rimpiangevo quei giorni e li avrei rivissuti decine, centinaia, migliaia di volte, pur di non essere in quel luogo di disperazione.

Perciò nacque una mia teoria personale: mai più privarsi di ciò che ci può dare piacere!

A cosa serve essere brave bambine se poi alla fine ci succede tutto questo? Avere l’approvazione di genitori, insegnanti, parenti, amici e tutta la compagnia se poi, in fin dei conti, non siamo a posto con noi stesse? A scuola non si dovrebbe insegnare ai bambini a dire: “Il mio desiderio è diventare buono” ma a dire: “Il mio desiderio è essere me stesso, a qualunque costo!”.

Da bambina io ero un maschiaccio, ero una frana in matematica, adoravo disegnare e fare casino ed ero la disperazione di mia madre, che a scuola era sempre andata bene, e che aveva un fratello artista, considerato la pecora nera della famiglia.

Ma io confesso che se tornassi indietro non solo vorrei essere così! Mi dispiace per la mamma ma avrei voluto essere peggio, così almeno mi sarei divertita di più. Una sorta di Pinocchio in gonnella: Pinocchia!

 

13/01/2004

Riallacciandomi al discorso di Pinocchia… C’è un passo della favola, quando Pinocchio parla con il grillo, mi sembra, e gli dice: “Quelli come te finiscono o in carcere o all’ospedale!”… Non sarà mica per il mio carattere che sono finita così!?

Un altro proverbio dice: “Mi piego ma non mi spezzo!”. Con questo non dico che Pinocchietto faceva bene a far disperare Fatine e Geppetti, però di certo faceva bene ad essere se stesso!

Tanto poi il tempo del giudizio arriva, eccome!

Io sono una pecora nera, e da brava pecora nera non accetto che le persone che incontro per strada, pensando che io sono la “ragazza malata della porta accanto”, la prima domanda che mi rivolgono quando mi incontrano sia: “Come stai?”. Questa frase è anche il titolo di una canzone di Baglioni, ma rivolta a me mi fa venire la nausea!

Ci sono delle etichette che la gente ama applicare ad altre persone, soprattutto se queste ultime hanno avuto situazioni particolari. Prima, quando non avevo lavoro, ero bollata come la vagabonda del quartiere, e giù ad inventare balle sulla mia persona.

Adesso che ho avuto questa storia, sono bollata come la malata del quartiere! E chissà che belle storie si saranno inventati i nostri amici!

Per spettegolare la gente non ha limiti!

Purtroppo per loro, io non sono una vip dello spettacolo, e gradirei che questi mancati paparazzi andassero a far gossip da un’altra parte… e non con la mia persona!

Oggi mi è capitato di essere paragonata ad una persona che è passata a miglior vita, come si dice… Quando ci sono di mezzo le chemio, il pensiero è quello. Sono luoghi comuni questi, si sa, ma come si può pensare a ricominciare quando ti vengono lanciate frecciate come queste?

Sono rimasta colpita e stupita di come possa essere sciocca la gente.

Non si può vivere con il terrore di queste persone!

Bisogna difendersi da loro, salvaguardare le nostre vite da sguardi di compassione come per dirti: “Non ce la farai mai, poveretta!”.

In questa fase siamo come bambini che scoprono un nuovo mondo e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di un trattamento di carità.

Questo non è volere il bene di una persona ma è volerla annientare.

“Pinocchia”

Ogni cambiamento richiede sforzo, coraggio, a volte sofferenza, perché abbandoniamo una parte di noi, ma ci apre nuove opportunità.

Quando facciamo del nostro meglio, anche se nessuno lo riconosce, abbiamo fatto il massimo…

…perché il tempo non è nelle nostre mani, né è nelle mani di nessuno, il modo di vivere sì.

Questo lavoro è il frutto di un’esperienza di gruppo svoltasi nei mesi di Aprile, Maggio e Giugno 2005 presso il C.O.R.D. – I.T.T. Accoglienza, ASL4 (Prato).

Un ringraziamento speciale va proprio ai partecipanti al gruppo, che sono anche gli Autori degli scritti qui pubblicati: Antonella, Cristina, Elio, Luciano, Katia, Marina P., Marina C., Sonia.

Perché è importante non sentirsi soli davanti alla malattia.